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-di Mario Dusi.

La responsabilità dell’amministratore non va confusa con quella della società: è quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 570/2023.

A seguito di un infortunio sul lavoro che aveva causato la morte di un dipendente, una società era stata ritenuta responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25 septies, comma 3, del D.Lgs. 231/2001, per aver tratto vantaggio dalla condotta del reato presupposto di omicidio colposo, attribuito all’amministratore unico.

Tale vantaggio era consistito, secondo il giudice di merito, nel risparmio derivante dall’inosservanza delle norme di sicurezza e, più precisamente, dall’impiego di lavoratori solo formalmente dipendenti di altra società, ma in realtà sottoposti al potere di direttivo della ricorrente; dalla mancata messa a disposizione dei lavoratori dei mezzi di protezione individuale prescritti (nel caso specifico, le sponde laterali del ponteggio, l’imbragatura e gli elmetti); dall’omessa formazione dei medesimi lavoratori sul montaggio/smontaggio dei ponteggi; e dall’assenza di un preposto a tali lavori effettivamente nominato e retribuito dalla società.

Avverso tale decisione, la società si era rivolta alla Cassazione, la quale ha ritenuto fondato il ricorso, affermando la necessità di distinguere la responsabilità da reato dell’amministratore/datore di lavoro (colpevolezza della persona fisica) dalla responsabilità da illecito amministrativo della società (colpa di organizzazione dell’ente).

Secondo la Suprema Corte, nel caso trattato, i profili colposi addebitati alla società erano ascrivibili all’amministratore quale datore di lavoro tenuto alle norme di prevenzione, ma, in mancanza di una prova positiva della sussistenza di una “colpa di organizzazione”, non erano automaticamente addebitabili anche all’ente in quanto tale.

Ricorda, infatti, la Corte che “la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente costituisce […] un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato” e, pertanto, “l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’ottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo”.

La colpa di organizzazione, si legge ancora nella sentenza, deve essere “rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato”.

Nel caso in esame, la Corte rileva come, invece, i Giudici di merito non abbiano motivato sulla concreta configurabilità di una colpa di organizzazione dell’ente, né abbiano stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto.

La Cassazione ha pertanto annullato la sentenza impugnata e rinviato a nuovo giudizio avanti alla Corte di Appello.