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– di Mario Dusi.

È ben evidente come il Legislatore italiano abbia continuato negli ultimi mesi (anni) ad individuare reati c.d. “presupposto” da inserire nel già lungo elenco del D.Lgs. 231/2001, mentre la Suprema Corte, nelle più recenti sentenze, continua a specificare (nelle singole fattispecie) i presupposti, e indica precisi “paletti” per la applicazione della norma.

Infatti, con sentenza numero 43656 del 2019, la Suprema Corte ha ben delineato non solo la tematica in generale dell’applicazione del D.Lgs. 231/2001 (approfondendo nuovamente i concetti di applicazione della norma quali “l’interesse e il vantaggio”) ma soprattutto proponendo chiare indicazioni relativamente alla distinzione fra POS e MOG della 231.

Statuisce la Suprema Corte che non è assolutamente possibile applicare la equazione: Responsabilità per penale della persona fisica, datore di lavoro/preposto, in incidenti sul luogo di lavoro = responsabilità amministrativa dell’ente”.

Questo presunto assioma trascura l’articolata disciplina posta dal D.Lgs. 231/2001, la cui applicazione prevede una importante valutazione da parte del giudice, il quale, in casi di applicazione della ridetta norma, deve obbligatoriamente valutare in prima battuta l’esistenza e il rispetto del POS, e solo e successivamente la sussistenza (o meno) dei vari presupposti di applicazione del D.Lgs. 231/2001, accertando preliminarmente l’esistenza di un modello organizzativo e di gestione.

Solo successivamente, così statuisce la Cassazione, il giudice valuterà l’evenienza che il modello esista, che lo stesso sia conforme alle norme, ed infine che esso sia stato efficacemente attuato (o meno) nell’ottica prevenzionale prima della commissione del fatto.

In buona sostanza, all’atteggiamento allarmistico e quasi repressivo del Legislatore che – come detto – inserisce costantemente nuovi reati presupposto nell’elenco della norma, fa eco la Suprema Corte in una valutazione molto attenta e ponderata dell’effettiva applicazione del ridetto decreto al caso specifico.