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– di Fabrizio Angella.

L’uso dei “social network” è in costante crescita e diffusione: il fenomeno coinvolge inevitabilmente anche i rapporti tra le aziende e i propri dipendenti, creando una interferenza tra il diritto del lavoro e l’uso dei “social”. Sono numerosi i casi finiti nelle aule dei Tribunali, anche recenti, di lavoratori che hanno pubblicamente criticato e disapprovato il datore di lavoro tramite i social network.

Al riguardo la giurisprudenza di merito è assolutamente chiara nell’affermare che, se è legittimo commentare fatti realmente accaduti (sempre con un linguaggio pacato e civile), è invece illegittimo e quindi vietato “postare” messaggi “on line” contenenti attacchi ingiustificati, offese personali, fatti non veri, denigrazioni gratuite ai danni del datore di lavoro, tanto giustificando l’irrogazione di sanzioni disciplinari e, nei casi più gravi, anche il licenziamento.

La linea di separazione tra lecito e vietato corre dunque tra il diritto di critica e l’offesa gratuita, diffamante, totalmente ingiustificata, di per sé intollerabile e quindi sanzionabile.

E’ cronaca recente la sentenza del 26 luglio 2021 del Tribunale di Taranto relativamente al caso di un ex dipendente di una nota acciaieria del luogo che su Facebook, commentando una serie televisiva, criticava gli autori della fiction per non aver fatto il nome dell’azienda, concludendo il commento con il termine “assassini”. Il datore di lavoro riteneva che il post contenesse frasi offensive che ledevano l’immagine dell’azienda e dei suoi dirigenti, determinandosi così a licenziare il lavoratore. Per il giudice, sebbene la frase usata dal lavoratore sia certamente grave e offensiva, risultava comunque troppo generica e non “attualizzata” (il film descriveva fatti realmente accaduti negli anni 2000) per giustificare il licenziamento, e quindi ha disposto la reintegra del lavoratore.

In un altro caso, invece, il Tribunale di Ancona (sentenza 175 del 2021) afferma che anche frasi e commenti ironici e denigratori del lavoratore, pubblicati in rete, possono risultare offensive e ingiuriosi, giustificando l’irrogazione di una sanzione disciplinare a carattere conservativo. Ma anche nel caso specifico, il Tribunale ha giudicato eccessivo, e quindi illegittimo, il licenziamento.

Il Tribunale di Crotone (sentenza 298/2021) si è invece pronunciato sul carattere offensivo e denigratorio degli “hashtag” aggiunti ai commenti. Secondo il giudice essi “contribuiscono alla maggiore diffusione del messaggio” condiviso, e quindi, aggiungendosi a commenti ingiuriosi e “like”, rendono a maggior ragione legittimo il licenziamento.

Non differentemente per il dipendente pubblico che esprime ripetutamente sul social network frasi denigratorie e offensive contro il Comune. Così il Tribunale di Livorno (sentenza 191/2021) ha ritenuto giustificata e proporzionata la sanzione della sospensione dal servizio per 30 giorni disposta dal Comune nei confronti di un vigile urbano.

La Cassazione è costante (cfr. tra le molte Cassazione Lavoro 15654/2012; 21633/2013) nell’affermare che le offese pubblicate sui social network possono giustificare anche il licenziamento, in quanto idonee a ledere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Secondo la Corte non può invocarsi a giustificazione il diritto di critica (costituzionalmente garantito), giacché nei casi che giustificano le sanzioni disciplinari, fino al licenziamento, si tratta di offese personali e generiche, volte a connotare in modo dispregiativo il datore di lavoro, senza alcuna critica specifica circa fatti verifìcatisi effettivamente sul luogo di lavoro. Ledono quindi irreparabilmente il rapporto fiduciario tra impresa e lavoratore tutti i commenti che diffondono per mezzo dei social network fatti non veri, insinuanti, gratuiti, offensivi, e che non trovano alcuna obiettiva giustificazione.

Così, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento motivato dalla pubblicazione su Facebook di immagini e commenti offensivi nei confronti dell’azienda e dei suoi dirigenti (Cass. 28878/2018), a motivo della potenziale capacità del messaggio di raggiungere un numero indeterminabile di soggetti.

Questo principio viene ribadito dalla Cassazione nella sentenza 10280/2018, con la precisazione che esso è applicabile anche se non è indicata espressamente la persona cui le offese sono rivolte, in quanto è sufficiente che questa sia facilmente identificabile; inoltre, il Supremo Collegio afferma che “non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, posto che anche un comportamento di natura colposa, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto “.

Merita però ricordare che a temperare le sanzioni disciplinari irrogate dai datori di lavoro ai propri dipendenti è intervenuta la Corte Europea dei diritti dell’Uomo con la pronuncia 35786 del 15 giugno 2021. Afferma la CEDU che non è sufficiente un “like” su Facebook a legittimare un licenziamento, in quanto ciò si porrebbe in contrasto con l’art. 10 della Carta europea dei diritti dell’UE, che tutela la libertà di espressione.

In conclusione, ancora una volta un tema delicato e complesso, tanto più alla luce della varietà delle possibili singole fattispecie concrete, da doversi, quindi, approfondire di volta in volta.