– di Mario Dusi.

Sempre più spesso la Suprema Corte si trova a dover trattare l’argomento della validità di testi di messaggi telefonici sia a mezzo SMS che a mezzo WhatsApp, usati come elemento di prova nei giudizi.

In un caso di violenza sessuale e ripetute minacce attraverso messaggi telefonici la Suprema Corte, con sentenza numero 47283 del 2019 (21 novembre) è tornata sulla tematica della validità di questi elementi di prova ed ha affermato che gli SMS conservati nella memoria di un telefono cellulare (sottoposto a sequestro) hanno natura di documenti, ai sensi dell’articolo 234 il Codice di Procedura Penale.

L’acquisizione degli stessi al processo non è sottoposta alla disciplina delle intercettazioni telefoniche e nemmeno al sequestro di corrispondenza. Il Supremo Giudice penale, secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale, afferma anche che il documento legittimamente acquisito in copia è soggetto alla libera valutazione da parte del Giudice, assumendo valore probatorio, pur se privo di certificazione ufficiale di conformità quand’anche l’imputato ne avesse disconosciuto il contenuto (per tutte vedasi sentenza Cassazione 8736 del 2018).

E dunque la Cassazione afferma che è ragionevole che le copie, ivi comprese quelle fotografiche, di messaggi WhatsApp ed SMS (formate dalla persona offesa e dalla stessa prodotta in giudizio) siano liberamente valutabili come prove ai fini della decisione, se giudice dia conto della riferibilità del loro contenuto all’imputato.

I nuovi mezzi di comunicazione sono pertanto definitivamente entrati nel novero delle prove da potersi usufruire e portare a supporto delle proprie tesi durante i giudizi sia penali che (in gran parte) anche civili.