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– di Mario Dusi.

Con una interessante sentenza della IV Sezione Penale (numero 16598/19, del 17 aprile 2019) la Suprema Corte ha nuovamente affrontato la tematica della applicazione della norma 231/2001 relativamente alla sicurezza dei e sui luoghi di lavoro, confrontando la nota tematica della esorbitanza del comportamento del lavoratore (il quale aveva anche contravvenuto alle prescrizioni impartire dal datore di lavoro ponendo in essere un comportamento estemporaneo ed imprevedibile, sganciandosi della linea vita e camminando liberamente su una copertura) con gli obblighi del datore in tema di presidi di sicurezza. È stato così effettivamente acclarato che in quel caso il dipendente si era comportato senza rispettare il D.Lgs. 81/2008.

Esaminata con attenzione la fattispecie però la Suprema Corte ha, da un lato affermato che il risparmio nei presidi di sicurezza (da cui deriva evidentemente l’interesse e il vantaggio per il datore di lavoro) si consegue anche riducendo i tempi di lavorazione e non solo gli investimenti per l’acquisto di strumenti cautelativi o per lo svolgimento di corsi di formazione dei dipendenti.

La Cassazione ha pertanto statuito che “anche laddove i presìdi collettivi ed individuali siano presenti e conformi alla normativa che ne regola le caratteristiche, anche laddove i lavoratori siano stati correttamente formati, ma poi le lavorazione in concreto si svolgono senza prevedere l’applicazione del controllo dell’utilizzo di strumenti in dotazione (al fine di conseguire il risultato di una riduzione dei tempi), si realizza l’intento di far perseguire alla persona giuridica un’utilità ed un interesse”.

A seguito di ciò l’azienda veniva condannata, applicando la nota norma.

Vi è dunque una nuova attenzione posta dalla Suprema Corte all’applicazione dei presupposti del D.Lgs. 231/2001, che non deve sfuggire alle aziende in fase di svolgimento dell’attività lavorativa, soprattutto nei cantieri per la costruzione di immobili.