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– di Laura Basso.

Con la sentenza 55216/08 dell’11 ottobre 2018, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha decretato la violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti umani in relazione al rifiuto di una Autorità Amministrativa (Prefetto) ad autorizzare la registrazione del cambio di sesso, richiesta nel 2001 da un transessuale ed in tal senso legittimato dal Tribunale di Roma, per avervi proceduto solo nel 2003, ossia oltre due anni e mezzo dopo, successivamente all’ottenimento di una sentenza irrevocabile che accertava l’intervenuto cambiamento di sesso.

Sostiene la Corte Europea che, ancorché la legislazione introdotta nel 2011 non richieda più la pronuncia di una seconda sentenza che accerti l’effettivo ed irreversibile mutamento di sesso, per l’annotazione dell’intervenuto cambio nei registri dello stato civile, la sola impossibilità, per il transessuale ricorrente, di ottenere il cambiamento del proprio nome nelle more della conferma giudiziale dell’avvenuto intervento chirurgico, realizza la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, atteso che il transessuale, per oltre due anni, aveva vissuto una posizione anomala tale da generare un senso di vulnerabilità, umiliazione ed ansia.

Prosegue la ridetta Corte Europea affermando che “non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine ed alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Sicché l’impossibilità dell’interessato di ottenere il cambio del proprio nome fino all’accertamento irrevocabile dell’avvenuto cambio di sesso costituisce una omissione dello Stato ad adempiere al un proprio obbligo positivo di assicurare il diritto del ricorrente al rispetto della vita privata.

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