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– di Laura Basso.

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Trento e da quello di Avezzano in tema di “rettificazione dell’attribuzione di sesso” sono all’origine delle pronunce della Consulta – sentenza n. 180 e ordinanza n. 185 del 13 luglio 2017 – che ne dichiarano, sostanzialmente, l’infondatezza.

Le censure dei giudici di merito riguardano l’art. 1 co. 1 della Legge n. 164/1982 secondo il quale “la rettificazione si fa in forza di sentenza passata in giudicato, che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.

Con la sentenza n. 180/2017 la Consulta, non solo ribadisce quanto già affermato con la sentenza n. 221/2015 e da Cass. n. 15138 del 2015, vale a dire la non necessità dell’intervento chirurgico modificativo dei caratteri sessuali primari ai fini della conclusione del percorso di transizione e conseguente rettificazione anagrafica del sesso attribuito ad un soggetto (riconoscendo che l’acquisizione di una nuova identità di genere può derivare da un percorso individuale che non postula la necessità di tale intervento), ma dipana i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, riaffermando come “la serietà e l’univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale siano (ndr debbano essere) oggetto di accertamento, anche tecnico, in sede giudiziale”. Che l’interevento chirurgico non sia necessario “non esclude, ma anzi avvalora  la necessità di un accertamento rigoroso della serietà del percorso intrapreso e della intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato”.

Continua la Corte Costituzionale affermando che “va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione”, in tal modo attuando un bilanciamento che, attraverso un procedimento giudiziale, “garantisca sia il diritto del singolo individuo all’identità personale e di genere, sia quelle esigenze di certezza delle relazioni giuridiche sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici”.

Con l’ordinanza n. 185/2017, la Corte Costituzionale respinge le ulteriori critiche avanzate dal Tribunale di Avezzano, secondo cui nelle sopra richiamate precedenti pronunce “sarebbe mancata la dovuta attenzione verso l’aspetto relazionale, essendo stata trascurata sia la valutazione dell’entità delle modificazioni ritenute necessarie, sia la rilevanza degli effetti di tale impostazione sulla collettività”. L’aver trascurato i rapporti interpersonali contrasterebbe con il principio personalistico che impone la declinazione anche nelle relazioni sociali, attraverso il bilanciamento dell’interesse individuale con quello pubblico alla certezza dei rapporti giuridici. Secondo il tribunale remittente, infatti, qualora l’elemento documentale prevalga su quello fisico, la società non sarebbe più fondata sul “duopolio uomo/donna”, ma su un numero indeterminato di generi dando vita ad una “promiscuità fondata sul dato cartolare” in danno alla maggioranza dei cittadini che, ancorata ad altri valori, sarebbe costretta “ad elaborare regole di comportamento certamente molto lontane dalla tradizione secolare”.

In rapporto alla citata censura, la Consulta riafferma come le bersagliate sentenze forniscano una interpretazione normativa rispettosa dei valori costituzionali e posta “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori di libertà e di dignità della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie anomale (cfr. anche Cass. 161/1985)”. L’esclusione dell’attribuzione della modifica di sesso anagrafico alla mera volontà della persona soddisfa “le esigenze pubblicistiche di certezza delle relazioni giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici” nel realizzare il “diritto del singolo al riconoscimento del proprio diritto all’identità personale, di cui è parte l’identità di genere”.

Le pronunce in esame evidenziano l’attualità – ma, in taluni aspetti, anche la lacunosità – della normativa italiana in materia di disforia di genere, tema che ancora oggi pone problemi interpretativi e criticità costituzionali. Ancora incerto, ad esempio, il “parametro” in base al quale valutare la componente maschile o femminile di un soggetto, ritenuto congruo ai fini dell’iscrizione di un soggetto all’altro sesso, così come le modalità attraverso le quali accertare “la serietà e definitività” dell’avvenuto cambiamento.

Innegabilmente, il percorso normativo evolutivo è stato avviato anche in Italia ed il legislatore non potrà che essere sempre più attento alle esigenze della condizione di transgenere, anche in rapporto allo sviluppo, in tema, della normativa comunitaria.

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